In 8, pp. 45 + (1) + (2b). Br. muta coeva. Discorso sulla necessità di porre un argine al fenomeno della mendicità. Scrive l’A. nell’incipit: "Siamo circondati, siamo giornalmente assediati dagli accattoni; e tale è il loro numero che, anche nella supposizione che tutti fossero veramente poveri e non viziosi, non sarebbe però possibile di avere né i mezzi né il tempo di fermarsi con tutti, e di soccorrerli tutti". Tra la folla di persone che chiede l’elemosina alcuni sono "veramente poveri, malaticci, incapaci di lavoro, degni perciò di tutta la nostra miserazione", altri invece "sono viziosi che non vogliono far niente. Nel primo caso la società è tenuta rigorosamente a soccorrrerli, ed a soccorrerli con ogni maniera di carità: nel secondo poi non si deve assolutamente né tollerare né autorizzare cotanta scioperataggine". Tuttavia l’uomo benefico deve guardare "questi esseri degenerati come particolarmente degni della sua compassione. Sono essi senza dubbio da compatire perché sono viziosi, e si deve tentare ogni sforzo per ricondurli nel buon sentiero e far perdere loro le cattive abitudini". L’A. propone quindi di ripartire dalle provvidenze, cadute in disuso ma non abrogate, emanate da Vittorio Amedeo II nel 1716-17 per la fondazione degli istituti di carità. Se all’interno degli stabilimenti "l’indolenza viene convertita in attività", si può risparmiare sulla gestione degli stessi ed ovviare al più grave dei problemi, ovvero la necessità di reperire fondi troppo ingenti in grado di sostenere simili strutture. I profondi cambiamenti in atto nella società piemontese e l’inadeguatezza degli antichi provvedimenti settecenteschi, cui pure viene fatta menzione in questo scritto, tornano al centro del dibattito nella società carloalbertina. Si incomincia a pensare che la sola repressione non possa essere risolutiva e che a questa debba associarsi anche l’idea di assistenza. Sarà in particolare Ilarione Petiti di Roreto a dare maggior respiro a questi temi, entrando così di diritto tra i teorici delle riforme ottocentesche a livello europeo. Certo stava realizzandosi a Torino un fenomeno di inurbamento da parte dei ceti poveri agricoli dello Stato Piemontese simile a quello di altre capitali europee, con la differenza che questa massa di diseredati non arrivava a Torino attratta da possibilità di lavoro nella nascente industria, che qui non esisteva ancora, bensì attratta dalle strutture di assistenza, inensistenti o quasi nelle altre città dello stato. Cfr. Levra, Il controllo sociale nell’800…, p. 180 cit. in La scienza e la colpa, 1985.
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